Tuesday, July 20, 2004

Giuseppe Marinello. Racconto della prigionia dorata in USA durante la seconda guerra mondiale

Giuseppe Marinello è nato a Sfax in Tunisia nel 1916. Ora vive vicino a Morena.
Ha un racconto bellissimo per i lettori.

“ D’origini sicule, i miei nonni erano emigrati in Tunisia a causa della pesca delle spugne. Mio papà continuò il lavoro che aveva intrapreso il nonno; famiglia numerosa, tre fratelli ed una sorella, per me che ero il più piccolo voleva un avvenire diverso. Però la scuola non mi piaceva per niente.
Così a 14 anni cominciai a lavorare come manovale e ferraiolo.
Nel ’35 il Consolato italiano offriva ai giovani italiani residenti fuori della Patria un mese come “giovani fascisti”. Sono partito. Era maggio. Alloggiavamo a Montesacro, nel campo Dux. Eravamo stipati in baracche, ma non mancava niente. Ci venne dato un tesserino con nome e cognome n di matricola; ci fornirono del fez e della camicia nera. Potevamo andare in tram, al cinema o a teatro, senza cacciare un soldo. Godevamo di forti riduzioni sulle bibite. Mussolini ci venne a trovare una domenica. Fu allestito un palco; e ci diedero molte leccornie da mangiare, quella domenica. Mussolini pose l’accento su di un punto nodale: disse che noi italiani all’estero eravamo la “spina dorsale dell’Italia”. Mi piaceva quest' idea di Italia. Mi piaceva così tanto che assieme a due miei amici decidemmo di fuggire via e di non imbarcarci assieme agli altri, ma bensì di pensare a come poterci arruolare nell’esercito italiano. Ci fu poi spiegato dall’allora ministro per gli affari esteri Piero Perini che quella procedura seguita da noi ragazzi non era troppo regolamentare e che in ogni caso dovevamo per forza di cose tornare nel paese che ci ospitava. A malincuore tornai in Tunisia. Ma non ho avuto il tempo per annoiarmi troppo. Il vento selvaggio, furioso della guerra si stava, infatti, spingendo prepotentemente pure da me. Mussolini di lì a pochi anni dichiarò guerra alla Francia; e noi italiani in seguito ad un decreto del governo tunisino, dovemmo presentarci presso le gendarmerie con poche cose per poter essere portati in un campo di concentramento. Salimmo in quei camion a tre a tre per essere portati a Toser. Filo spinato, tende e baracche e… dissenteria! Scoprimmo che ci davano da mangiare carne che proveniva da animali infettati dalla tubercolosi. Dopo un mese di questa vita, Hitler assalì la Francia e noi fummo quindi liberati. Una volta a casa con due miei amici, decidemmo di arruolarci. Partimmo così per la Libia.
Dopo tante peripezie giungemmo a Keff dove, il 10 marzo del 1943 fummo catturati dagli australiani.
Ci portarono alla stazione del treno diretti ad Algeri.
E là ci diedero scatole con biscotti, marmellate, cinque sigarette,cioccolato. All’arrivo gli australiani ci consegnarono agli americani.

Finimmo in un campo di prigionia a Casablanca, ma per poco. La Queen Mary, un bellissimo transatlantico ci avrebbe portati, infatti, sino in America, nello stato della Virginia.
15 giorni di viaggio arrivammo in una caserma, provvista di una fila di docce interminabili.
Bruciarono i nostri abiti; un signore ci aiutò con delle spazzole a pulirci la schiena; poi ci spruzzarono uno spray; vennero tagliati i capelli giudicati troppo incolti.
Dopo tutto ciò, finimmo in un gran camerone. Chiamati per nome, ci diedero i nostri vestiti, uguali alle divise dei militari americani, tranne per il logo, che ci faceva sentire “ospiti”cucito nel cappello e nella giacca militare.


Ci munirono del nostro corredo: un sacco a pelo, abiti e biancheria.
Ammetto che mai avrei pensato in stato di prigionia di poter trovare così tanta abbondanza di cibo.
La mia colazione era così composta: zabaione, con pane di riso rettangolare tagliato a fettine; uova sode, burro e marmellata, mortadella e prosciutto, latte.

I cuochi che dovevano prendersi cura di noi erano di Bologna.
Avevamo sempre una bottiglia di latte fresco per ciascuno a tavola durante i pasti;
due pacchi con dieci gelati a pranzo ed a cena; pastasciutta, pasta al forno ogni tipo di carne, e di contorno. Non mancava mai una fetta di dolce la mattina e la sera.
Una bottiglia di birra, ma non di più. Niente vino.
Enorme pulizia, un’ispezione controllava due volte al giorno per verificare che tutto filasse liscio.
Dopo 15 giorni finimmo in Texas, a Dallas. Ciascuna camerata era di 15 persone. Tutti i giorni tre uomini di corvè erano adibiti alle pulizie. Dopo circa 20 giorni i coloni richiesero manodopera per la raccolta delle patate: 80 cents al giorno, il lavoro era semplice e per nulla faticoso.
Una macchina smuoveva i tuberi. Noi dovevamo semplicemente raccoglierli. Lavoravamo dalle 9 alle 12:30; poi facevamo una pausa di un’ora per riprendere sino alle 4:30 del pomeriggio. Il sabato non lavoravamo ma riscuotevamo la paga. Dopo 11 mesi siamo stati portati a Phoenix, in Arizona.

Ciascuna matricola aveva un sacco blu dove mettere ogni 3 giorni le lenzuola e la biancheria sporca. Dopo 4 giorni venne richiesta manodopera per la raccolta del cotone.
Il sacco era largo circa mezzo metro e lungo 3 metri e mezzo; sono rimasto a Phoenix per 12 mesi, per poi approdare in California, a Valeo. Lì cominciai a lavorare per il Fenicia Arsenal uno stabilimento che produceva armi e munizioni.
All’interno della caserma, il clima già ottimo, migliorò sensibilmente quando ci chiesero se volevamo essere alleati-collaboratori degli americani. Firmammo senza esitare. Avevamo gratis il cinema, il teatro, il pattinaggio; la libera uscita dalle 19 alle 22 ogni sera. il corso d’inglese ogni sera per un’ora e mezzo, sebbene io preferivo di gran lunga uscire a divertirmi.


Una sera di marzo del ’46 ci annunciarono che potevamo tornare in Italia. Per me non fu affatto una buona notizia. Cercai di scappare, ad Acapulco, per poter raggiungere le coste americane, con un’imbarcazione di fortuna che mi procurai gettandomi in mare.
Purtroppo il sogno si infranse a 100 metri dalla riva, e finii in galera sulla nave con altri 4 amici a pane ed acqua per dieci giorni.


Il lungo viaggio si concluderà solo a Napoli; ma non apprezzavo l’ospitalità accattona dei partenopei che volevano spillarmi i quattrini riportati.
Così, andai prima a Roma, poi a Torino, Milano, per finire di nuovo a Roma dove conobbi mia moglie Carla. Ho avuto 1.200.000 dall’esercito, e con quei soldi, un tempo tanti, sono andato avanti sino a trovare a Genova, un lavoro con una cooperativa nel porto.
Quando sono andato a Milano, per anni ho fatto il giardiniere presso un Istituto superiore gestito da suore. Ed ora, dopo il matrimonio di mia figlia, vivo sereno a Morena con mia moglie e gli altri affetti che mi circondano.”

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