Giuseppa è una donna che sa parlare al cuore e rievocare suggestive immagini di un tempo sbiadito che lei sa di nuovo rendere vivo.Alta, austera, un sorriso bello ed un’ospitalità calda, vi faccio immergere in un racconto da far stare incollati sino all’ultima riga.
Prima di parlare di me, è indispensabile tracciare un profilo della mia famiglia. Papà e mamma erano totalmante analfabeti. Papà era un contadino di Collelungo, una frazione vicino Morena. dopo il matrimonio tutti i soldi che inviava dal lavoro delle traverse finivano per una famiglia di 22 persone. Una volta tornato decise con i risparmi che la mamma era riuscita ad accantonare, ad acquistare a Morenaccia un locale vicino alla scuola, dove ha cominciato ad aprire un qualche cosa che somigliava ad un bar. Non era facile. Da principio acquistava uova e contenitori di “saracche”, pelli di coniglio e così via per poi partire a piedi per le campagne, povero papà Ubaldo Con i primi soldi comperò un somaro per portare la merce. Poi, ha iniziato a tenere diversa roba nel negozio. Con quei soldi racimolati aveva tirato su due mura a Morena; una camera ed una cucina per loro e la stanza per il somaro. La gratitudine prima di tutto.Nella bottega che avevamo aperto c’era di tutto; il vino, l'orzo per passare a tutta la chincaglieria, bottoni, fili, aghi; tanta stoffa per i vestiti e la biancheria. Il prodotto che si vendeva di meno era lo zucchero. Si acquistava quando stava male qualcuno. La domanda d’obbligo era: è per caso indisposto? I nostri clienti giungevano sino da Burano. Gli affari erano ottimi. La guerra ci colse un po’ di sprovvista però potevamo dire che campavamo bene.Mi mancano gli odori della mia giovinezza. Il pane di granoturco con lo zibibbo, ed il caffè che sapeva preparare la mamma, una ricetta unica: metteva sul brustolino un po’ di ceci, l’orzo mondo, una pizzicata di ghiande castagnole e qualche acino di caffè. Poco, quando preparava per noi figli; generoso per gli ospiti che giungevano in visita.Il meglio che c’era. Eravamo solite preparare 30 file di pane al giorno. Non era uno scherzo, considerato che la mamma tirava avanti la baracca essendo rimasta vedova prestissimo e con una nidiata di figli da crecere. 18 partoriti, 7 rimasti in vita. Io sono del ’29 e ricordo con nitidezza e precisione i momenti terribili dell’avvento della seconda guerra mondiale. Le tessere erano divenute una consuetudine. Morena come tutti i bar era il crocevia di spie, partigiani, tedeschi, inglesi. Dopo l’armistizio, i partigiani ci proibirono di dare via la merce alle persone. Mia mamma prima ancora di essere un’esercente era una donna che non poteva lasciare altre mamme prive di viveri per i propri bambini. Così era solita riempire delle buste di farina razionate per poi nasconderle in un macciociondolo vicino casa. Verso mezzanotte, le signore di Burano a turno, venivano a prendere la loro razione di cibo. Noi avevamo ogni giorno 20-25 partigiani che sostavano nel nostro ristorante e mangiavano gratis. Anche a Carnali, il signore locale proprietario di 4 poderi, venne vietato di poter vendere le sue bestie. Queste erano sistematicamente uccise dai partigiani e cucinate da noi per i loro pranzi. Non siamo mai state pagate per cucinare e per servire loro i pasti. La nostra casa a pianterreno era un arsenale. Bombe a mano, mitragliatrici, fucili d’ogni sorta, una volta mio fratello si arrabbiò di brutto ed avvisato don Marino questi fece in modo di far sparire dalla circolazione grazie alla banda di Cantiano l’arsenale che avevano parcheggiato nella nostra dimora. Un giorno si presentò da noi un signore sulla 50 ina vestito di stracci Sembrava stupido. Sulle prime lo prendevamo in giro. Ci chiedeva asilo. Lo avevamo assegnato a spaccare le legne ed ai lavori manuali. E’ stato con noi 8 giorni, poi, riconosciuto dal nostro garzone Rigo, scomparve dalla circolazione.Pare conoscesse 7 lingue. Al posto suo giunse Marion Keller, affascinante ragazza 29 enne; non era alta, aveva un viso rotondo, bionda, bel fisico. Nel nostro bar venne interrogata dalla moglie di Panichi, un esponente partigiano di spicco della zona di Pianello,in quanto questa conosceva bene l’inglese. Trascorse una notte con noi; poi fu portata al Mulinaccio dalla mamma di Siro…. Ex proprietario del panificio di Pietralunga. Poi, ho saputo che era stata giustiziata. Era domenica il giorno prima dell'incendio al nostro bar; il giorno prima che il nostro mondo venisse distrutto. Doveva celebrarsi la messa. Eravamo giusto quatro gatti; la notizia dell’arrivo dei tedeschi si diffuse in fretta. Corsi a casa ad avvertire mamma. Io scappai via
assieme ad una cugina; mia mamma aveva in collo Ubaldo-l’attuale proprietario del bar!- che all’epoca aveva appena 6 mesi.
Sapevamo di lasciare ogni ben di Dio. Tentai di nascondere un prosciutto in una finestrella in cui poggiavamo i panni sporchi dei pannolini di Ubaldo, convinta che là non avrebbero guardato, e mi ero ricordata del portafogli di mamma; avevamo 16.000 lire. Giunsi col fiato sul collo a Col di Cistone. Assieme agli altri ragazzini ci eravamo messi sotto un’enorme noce. Giocavamo ignorando il peggio. I tedeschi passarono la nottata a casa nostra. Mangiarono solo le uova; ritenevano il nostro cibo avvelenato. Cosa non vera. Alle 2 di notte, intanto, nella casa di Vittorio Smacchia dove avevamo trovato intanto rifugio, sentimmo un bussare concitato alla porta. Era don Marino, il quale sfinito, chiese se poteva essere rifocillato. Una volta che ebbe finito di mangiare due uova tornò fuori. Nella nostra casa erano stati presi in ostaggio il nostro commesso, Rigo e Giuseppe, un tale che conduceva a pagamento i cavalli per conto dei partigiani. Quella fu la nottata più lunga della loro vita; credettero di morire, quando dal nulla risbucò fuori il finto straccione ebete. Questi fu in grado di chiarire le posizioni di quei due poveracci ed ebbero salva la vita. I luoghi che vennero incendiati furono consigliati al plotone tedesco dal finto vagabondo. A l’una del giorno, messe le mine ed infuocato, i tedeschi se ne andarono portandosi via la tuta di cuoio di mio fratello e gettando alle ortiche stupenda biancheria. L’incedio non tardò a divampare in tutta la sua voracità, sommergendo i nostri sogni ed i nostri desideri. Quel che era stato ieri, oggi non esisteva più. La mamma, sebbene con le lacrime agli occhi per l’orrore cui stava assistendo si ricordò che nella Chiesa in fiamme c’era il Santissimo, ed andava salvato. Corse all’impazzata con il cuore che le batteva forte, sino in Chiesa, sfidando fuoco e fiamme. Lo portò fuori, e poi a Morenicchia. Là venne costruito un altarino ed avvisato subito il parroco di Aggiglioni don Ivo Andreani; quindi, dopo qualche tempo accompagnammo nella sua parrocchia l’Altissimo in processione.
Dopo essere rimasti senza casa, e con due fratelli
in guerra che al loro ritorno non avrebbero più trovato nulla, ci trasferimmo a Casanova dè Mulattieri per qualche giorno; da lì, finimmo a Monte del Breve perché là avevamo degli altri parenti.
Il terrore era tanto poiché Michele era un partigiano con un terribile rimorso dentro di sé. L’aver aiutato la causa della Resistenza l’aveva indotto a perdere una casa ed ai suoi occhi, il rispetto dei due fratelli che una volta finita la guerra sarebbero tornati a riabbracciarli ed a chiedere spiegazioni.
Non si perse d’animo però, no. Mai. Cominciò a commerciare in nero; con poco, al solito, come i nostri genitori. 2 chili di sale, 1 prosciutto ed 1 barile di vino. Quello che potevamo lo nascondevamo sotto terra per impedire che ce lo portassero via i partigiani. Dal Pianello giungevano 300-400 uova per volta da vendere. Con quelle rotte facevamo dolci e pastasciutta a volontà
Non si poteva fare, vendere oltre regione. Michele però sfidava tutto e tutti ed andava a Roma, con gli agnelli, i maiali. Se acquistava ad uno, rivendeva a dieci. L’anno dopo gran parte della nostra casa era ricostruita. Dopo l’incendio che distrusse la nostra abitazione per un altro mese ancora vennero i tedeschi e gli inglesi; un giorno l’uno, un giorno l’altro. Gli inglesi ci portavano sempre della cioccolata. Poi, più nulla. Terminata la guerra, i nostri fratelli non tardarono a tornare. Diedero più d’una mano per ricostruire la casa andata persa. Nel ’50 era finita. Non era però più quella di una volta e sentivo che il mondo stava cambiando. Nel ’51 mi sono sposata con un ragazzo, Angelo, dopo appena 6 mesi di fidanzamento e sono andata ad abitare a Pietralunga. Lì ho ricominciato un’avventura che mi ha portato a possedere un altro bar Il Boschetto, un ristorante, un distributore, e tante altre attività commerciali.
Posso dire che per quanto la vita possa essere strana è e rimane la più esaltante esperienza che si possa mi intraprendere sulla faccia della Terra.
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